Ogni cosa è opinabile. Lo sono le parole. Lo sono i numeri. Lo sono i comportamenti. Lo sono i fatti.
Ad ogni cosa si può dare un’interpretazione ed una lettura diversa. Vittoria e sconfitta possono, paradossalmente, invertirsi i ruoli: una vittoria (sportiva, politica, contrattuale) può essere letta in maniera opposta, così come una sconfitta può assumere una valenza ben diversa. I risultati elettorali forse ne sono l’esempio più evidente: leader di partiti che magari, rispetto alla precedente tornata elettorale, hanno dimezzato i voti, riescono comunque a trovare motivazioni e “appigli” per convincere (prima di tutto se stessi probabilmente) che le cose non sono come sembrano e che, in considerazione di questo e di quell’altro, il risultato non è così negativo, anzi.
Certamente fare confronti non è opera semplice, essendo, il più delle volte, il “quadro di riferimento “diverso.
Pensiamo, senza girarci troppo intorno, all’economia.
La “stagionalità” (è il periodo in cui, in Europa, i vari Paesi sono chiamati a presentare le “previsioni di conto” per l’anno che verrà) ci offre la possibilità di conoscere, almeno a grandi linee, la situazione in cui gli Stati membri si trovano: previsioni di crescita, andamento del deficit, sostenibilità del debito, etc. Si misurano le virgole e i centesimi pur di “strappare” la sufficienza da parte di chi è chiamato ad esprimere il giudizio (la Commissione Europea), peraltro dimenticando che, forse, in un mondo “perfetto”, i primi a cui bisognerebbe rispondere sono i giovani (ma alla “comunità”), che, di questo passo, dovranno affrontare un futuro ben più difficile di quello che ci hanno lasciato in eredità i nostri genitori.
Le voci di cui sopra sono, evidentemente, tra loro fortemente collegate: non c’è bisogno di essere dei premi Nobel per l’economia per capire che un Paese con un debito elevato, se vorrà ridurlo, e quindi far sì che rimanga sostenibile, dovrà mettere in atto misure ben diverse rispetto a chi, invece, naviga in acque più tranquille. Per “mantenere il passo”, cioè, saranno necessari interventi un po’ più drastici. E qui potrebbero iniziare le prime difficoltà, dovuta all’esigenza di far convivere obiettivi di “breve” a quelli di “lungo” periodo. La scure dei tagli (fondamentale se si vuole ridurre il debito ed evitare crescita in deficit) nel breve non potrà che penalizzare la crescita: i cittadini, se così fosse, sarebbero chiamati a “stringere la cinghia”, e non di poco. Ma il futuro avrebbe prospettive ben diverse.
Riducendo ai minimi termini la discussione, questo è il grande dilemma in cui si trova il nostro Paese. Da questo derivano le discussioni di questi giorni e le tensioni che ci riguardano.
Se lo spread ieri ha superato i 200 bp e si trova ad un livello di ben 53 bp superiore a quello della Grecia (vale a dire lo “stereotipo”, per molto tempo, di un Paese mal governato e con “le tasche bucate”), tutto è riconducibile al fatto che continuiamo a confermare una certa riluttanza nell’accettare la realtà, che ci spinge a cercare scorciatoie ovvero la “minor resistenza”, perseguendo il “6 politico”, ben sapendo che basta un piccolo incidente di percorso per fallire nell’obiettivo e non arrivare alla sufficienza.
Il Portogallo, verso il quale il differenziale dello spread è intono ai 124 bp, dovrebbe passare da un rapporto debito/PIL che nel 2022 era di 112,4% al 96,5% nel 2025. La Spagna, da cui ci separano 88 punti di spread, dal 113,2% (sempre dati 2022) al 110,4% nel 2204. Nella Nadef appena pubblicata, il Governo prevede che dall’attuale 141,2 si arrivi, nel 2026, al 139,6%.
Ancora maggiori le differenze se parliamo di crescita.
Per la Spagna si ipotizza un + 2,2% per l’anno in corso e un + 1,5% per il 2024. In Portogallo + 2,3% quest’anno e + 1,6% per il 2024, in Grecia rispettivamente + 2% e + 1.6%.
E l’Italia? + 0,7% quest’anno, + 0,6% l’anno prossimo.
Al di là delle parole, quali strumenti ha la business community (un modo elegante per dire “i mercati”) per esprimere le proprie perplessità? Chiedere un “premio al rischio” più alto: maggior rischio maggior rendimento è una delle prime leggi del mercato, che trova ancora una volta, purtroppo, una conferma quotidiana.
Forse il giudizio de L’Economist (che ci definisce “irresponsabili”) è un po’ esagerato (fermo restando che è in tutta evidenza un giudizio politico), ma certo gli osservatori, da subito piuttosto perplessi sulla Nadef, non stanno facendo salti di gioia pensando alla situazione in cui potremmo trovarci tra non molto…
Ieri giornata senza troppi spunti, con Wall Street che ha chiuso leggermente debole, in attesa dei dati occupazionali di settembre, previsti per oggi.
Intanto a Hong Kong l’Hang Seng si appresta a chiudere la settima con un forte rialzo (al momento + 1,53%).
Non la segue, a Tokyo, il Nikkei, che arretra di un modesto – 0,26%.
In rialzo gli altri indici del Far East, mentre la Cina riaprirà lunedì.
Futures che si muovono, sulle due sponde dell’oceano, intorno alla parità.
Petrolio in ulteriore caduta, con i prezzi del WTI che questa mattina segnano $ 82,71, circa il 10% in meno rispetto ad una settimana fa.
Ancora in rialzo, invece, il gas naturale Usa, a $ 3,185.
Oro che sembra aver trovato stabilità, con le quotazioni che oscillano intorno ai $ 1.830 (1.834,80).
Spread a 200bp “tondi”, con il BTP al 4,88%.
Bund a 2,87%.
Treasury a 4,71%.
Leggerissimo recupero per l’€, con l’€/$ a 1,0536.
Bitcoin che si appresta a chiudere la settimana sui valori di ieri (27.516).
Ps: di norma, il mandato del Presidente della Repubblica dura 7 anni. Ma, anche qua, ormai ci sono eccezioni che la confermano. E’ stato così per Giorgio Napolitano, deceduto pochi giorni fa, rimasto al Quirinale per 3.166 giorni. Un record durato sino a ieri. Superato da Sergio Mattarella, che da ieri è diventato il Presidente più longevo, con 3.167 giorni. Che diventeranno ben di più, visto che il suo secondo mandato scadrà nel 2029 (è stato rieletto il 29 gennaio 2022).